Don Benzi sulla scia di San Giovanni Di Dio

Don Benzi sulla scia di San Giovanni Di Dio

Fonte: ospitalitaevangelica

13 febbraio 2018 | Angelo Nocet

Propongo all’attenzione dei lettori questa prefazione dello Psichiatra Vittorino Andreoli che, con una piccola variazione: “Caro San Giovanni di Dio…”, andrebbe bene anche come presentazione della prima biografia del “Folle di Granada” scritta da Francesco De Castro. 

Caro don Oreste,

ho terminato di leggere HO SCOPERTO PERCHE’ DIO STA ZITTO proprio ora. Anzitutto il termine “leggere” mi appare inadeguato, perché più che leggere delle pagine mi incontravo con te, con la tua capacità di render semplici i temi dell’uomo. Semplici fino al paradosso, fino a far apparire la cultura e sapienza umana roba da idiot sauvant.

Sei un prete strano, ed è solo a questo mondo fatto di superficiali e di idioti se non ti hanno bruciato. E a me piacerebbe molto avere un amico al rogo, un Savonarola del tempo presente. Con te, don Oreste, ho compreso una distinzione sottile:

  • ci sono cose che non capisco e che sono certo trattarsi di sciocchezze,

  • altre che pure non capisco ma che però mi attirano e mi sembrano nascondere qualcosa di straordinario.

Un libro strano, ma grande. Pubblicalo subito, servirà da guida a quanti lavorano con te e hanno bisogno di te mentre sei con altri.

Sei uno dei pochi preti che conoscono il dolore e dentro il dolore vedono la gioia.

Una follia! Qualche volta mi sono arrabbiato più di Giobbe, ma tu sai vedere anche su una carrozzella la volontà del Signore. Forse perfino Giobbe sapendo del tuo “andar a puttane” si quieterebbe.

Tutti i “sapienti” ridono di te e ti considerano un coglione; io so – senza sapere il perché – che in questo tempo un prete vero non può brillare.

Non montarti la testa se te lo dico (altrimenti mi tocca ricoverarti), ma hai un destino strano: ti faranno santo. Parola di un non credente che non capisce e non sopporta gli atei.

Caro don Oreste, acquisterò due copie del tuo libro: una la lascierò in biblioteca, l’altra me la porterò all’Inferno.
Tu, comunque, mettimi dentro qualche orazione comune, non personale: non voglio toglierla ad altri.

Vittorino Andreoli.

“Il libro di don Oreste è un insieme di filosofia, psicologia, teologia, ma soprattutto la testimonianza di un uomo, un autentico carismatico che ama, appassionato del … dell’esperienza-testimonianza di un uomo preso da Dio e che vuole offrire questa scoperta innanzitutto ai giovani” (Dalla prefazione di Massimo Giustetti vescovo emerito di Bielle).

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Negli ultimi anni lo si incontrava di notte, sulle strade italiane della prostituzione. La lunga tonaca scura e il rosario in mano.Do you love Jesus?, chiedeva alle ragazze, con il sorriso aperto e una gioia contaminante.
In molte scoppiavano in lacrime “Yes, I love him…”. Riusciva a farle sentire donne, dignitose e pulite. Don Oreste era in grado di rimestare nella degradazione umana senza mai sporcarsi.

Ha cambiato il destino di molte persone. Un giorno una ragazza gli disse: “Sono una schiava”. Lui le credette.
Così iniziò la sua lotta contro il traffico di esseri umani. Di fronte all’orrore della guerra, chiese a tanti giovani di condividere la vita con le popolazioni oppresse dalla violenza, “perché Gesù ha fatto questo, è venuto tra noi, ultimo tra gli ultimi”. Si potrebbero raccontare innumerevoli aneddoti. Tratta di esseri umani, pace, vita nascente, tossicodipendenze, disabilità, infanzia maltrattata, handicap, discriminazione sociale, ovunque vedesse la negazione della dignità e dei diritti umani il “don” era lì, a condividere con le vittime.

Con la semplicità di un bambino, realizzava cose ritenute irrealizzabili. Per questo gli davano del pazzo.
Tutti quelli che l’hanno conosciuto ricordano bene il suo saper guardare al cuore delle persone, ai doni e all’unicità di ognuno.

La storia della Comunità Papa Giovanni XXIII è inevitabilmente intrecciata alla sua storia personale.

 

Sono trascorsi 10 anni da quella notte, tra il 1 e il 2 novembre 2007, in cui Don Oreste lasciava questa vita terrena. Una vita spesa con gli ultimi, instancabilmente. Sempre loro fianco, condividendone gioie e fatiche, lottando con loro, diventando voce di chi non ha voce. Ha urlato tante parole di giustizia il “don”. A volte sono rimaste inascoltate, altre volte queste parole sono state strumenti di dialogo per arrivare a conquiste importanti, leggi a tutela dei piccoli, superamento di “fabbriche di oppressi” come lui le chiamava.

  • Come mai quelle parole oggi sono più vive che mai?
  • Come mai questa figura è così attuale e rivoluzionaria?

A queste domande si vuole provare a dare una risposta, al Palacongressi di Rimini il 31 Ottobre prossimo, attraverso il convegno “Una vita per amare”, una giornata di studi e testimonianze, per approfondire la figura del “prete dalla tonaca lisa”.

Un’attenzione particolare è per i giovani.

Proprio a loro don Oreste dedicava il suo ultimo intervento pubblico, alle “Settimane sociali dei cattolici” il 19 ottobre 2007.

È arrivata l’ora dell’azione. O, meglio, della concretezza. E concludo: oggi voglio dire ancora che occorrono strategie comuni da attuare, ognuno nel dono carismatico che ha, nel dono della parrocchia in cui è, nella diocesi in cui si trova. Ma dobbiamo veder i fatti, la gente si sente tradita tutte le volte che ripetiamo le parole di speranza, ma non c’è l’azione.

Cos’hanno lasciato i cattolici, permettetemelo? Hanno lasciato la devozione. Devozione che è unione con Dio – Amore, che è validissima, ma la devozione senza la rivoluzione non basta, non basta. Soprattutto le masse giovanili non le avremo mai più con noi, se non ci mettiamo con loro per rivoluzionare il mondo e far spazio dentro. Ma il vento è favorevole, perché il cuore dei giovani, ve lo dico – e non badate alle cassandre – oggi batte per Cristo. Però ci vuole chi senta quel battito, chi li organizzi e li porti avanti in una maniera meravigliosa”.

Al convegno ci saranno video e tante testimonianze di persone impegnate sul campo, in tanti ambiti dove il Don ha portato la sua lotta contro l’ingiustizia: immigrazione, prostituzione e tratta di esseri umani, conflitti e pace, tossicodipendenza, difesa della vita, disabilità e integrazione.

Tante voci diverse per vivere la sua profezia, e più forte di tutte la voce degli ultimi.

Un’occasione per raccogliere la sfida di don Benzi: se lui ci ha messo la sua vita possiamo farlo anche noi!

 

Biografia. Don Oreste Benzi, una vita per la giustizia

Lucia Bellaspiga 

Aveva sette anni il piccolo Oreste Benzi il giorno in cui la maestra Olga parlò di tre figure: lo scienziato, l’esploratore e il sacerdote. Tornò da scuola e disse a sua madre «io farò il prete»: non un’infatuazione ma un innamoramento che darà l’impronta a tutta la sua vita e farà di don Benzi – del quale si è aperto a Rimini il processo per la causa di beatificazione – una delle figure più straordinarie della Chiesa, un «infaticabile apostolo della carità», come lo definirà Benedetto XVI.

Settimo di nove figli, a 12 anni entrò in seminario e per contribuire agli studi i suoi genitori chiesero l’elemosina. Sono esperienze come questa, per nulla avvilenti, anzi dense di dignità e amore, a formare il futuro sacerdote, che del sacrificio paterno dirà: «Questo fatto mi ha aiutato molto in seguito…».

Se dalla madre Rosa apprese la forza dirompente della preghiera, dal padre Achille ereditò l’amore per i piccoli, parola che racchiudeva tutte le emarginazioni. Il primo dei piccoli era proprio quel padre: una sera tornò a casa e raccontò alla famiglia di aver aiutato un proprietario terriero a disincagliare la sua auto. Il ricco gli aveva dato una mancia di due lire e soprattutto “po u’ma stret la mena!“, diceva incredulo, «poi mi ha stretto la mano».

A suo figlio invece strinse il cuore: «Mio padre apparteneva a quella categoria di persone che reputano di non valere nulla, che chiede quasi scusa di esistere – racconterà don Oreste –. Quando io incontro il povero, l’ultimo, il disperato, quelli che sono alla stazione, sul marciapiede, in me si rifà presente quella immagine di mio papà».

Non dormiva mai più di tre ore per notte, per non perderne nemmeno uno. È stato il prete delle vere rivoluzioni sociali, tutte condotte da dentro la Chiesa, armato di tonaca e Vangelo.

Negli anni ’60 la sua battaglia perché i disabili non venissero nascosti come una vergogna ma fossero accettati negli alberghi, a scuola e al lavoro suscitò proteste e serrate. Il “suo” ’68 fu incendiario nei fatti: in quell’anno fondò la Comunità Papa Giovanni XXIII, oggi diffusa nel mondo, e divenne parroco della “Resurrezione” nel quartiere più desolato della periferia riminese, quella Grotta Rossa dove ieri si celebrava l’apertura del processo di beatificazione e che per 32 anni divenne la sua casa.

«Quanti giovani vecchi ho visto nella mia vita», diceva dell’altro ’68, quello delle ideologie senza fatti, «incendiari al liceo, ma poi al primo salario, entrati nelle stanze del comando, tutti pompieri. Il loro dorso diventava flessibile, dove si poteva fare carriera. Perché? Perché la loro rivoluzione era contro, non per».

Il dorso don Oreste non lo ha mai piegato davanti ai potenti, soltanto per chinarsi e raccogliere il povero, il barbone, la prostituta, il drogato. Contro “tutte” le guerre, ha combattuto accanto ai primi obiettori di coscienza per la nonviolenza così come al fianco di migliaia di bambini destinati all’aborto, oggi tutti suoi figli. Quando le loro madri tornavano a trovarlo col bimbo in braccio, lo guardava ridendo: “la t’è nde bin“, ti è andata bene!

«L’uomo non è il suo errore», ha rivelato ai carcerati, convincendoli che ricominciare si può. «Nessuna donna nasce prostituta», ha detto prendendone per mano 7mila e salvandole dalla schiavitù. E poi anziani soli, persone malate, zingari, immigrati, sbandati, drogati, alcolizzati…

Erano in diecimila al suo funerale nel 2007, tutti graziati dall’«incontro simpatico con Cristo» (sim-patia, in greco consonanza), tutti con la luce negli occhi e un amore palpabile nel cuore. La sua intuizione più geniale fu la famiglia come terapia contro ogni solitudine e sconfitta: «Date una famiglia a chi non ce l’ha», disse ai suoi, e centinaia di giovani sposi accanto ai propri figli oggi ne accolgono sette, otto disabili gravissimi, quelli che nessuno vuole. Ciò che colpisce è la gioia semplice con cui lo fanno. «La Papa Giovanni è una Comunità di gente che è totalmente in simpatia con Cristo, per cui ha il sorriso sul volto – spiegò –. Quando arrivano i disperati, in ognuno di loro vede Gesù, quindi viene fuori una Comunità che è una sinfonia, la sinfonia di Dio».

La notte del 25 settembre del 2007 uscì dalla sua Grotta Rossa e bussò alla Capanna di Betlemme, la prima delle strutture per senzatetto: «Eccomi, sono un barbone». Morirà poco dopo, nella notte tra i Santi e i Morti, all’improvviso, dopo una cena al ristorante con gli amici più cari (fatto mai avvenuto prima) e dopo aver vergato un’ultima profetica meditazione: «Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra la gente dirà: è morto. In realtà la morte non esiste… appena chiudo gli occhi mi apro all’infinito di Dio» (sabato 27 settembre 2014)