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«Il concetto di bellezza è caratteristica culturale di una civiltà che cresce»

Vittorino Andreoli

Fonte: Libertà

22 maggio 2022 | Anna Anselmi

MERCOLEDÌ ALLA SALA DEI TEATINI SARÀ IL PRIMO OSPITE DELLA RASSEGNA “PROTAGONISTI DEL NOSTRO TEMPO”

«È un titolo molto bello. Non l’ho scelto io, ma è un’idea stupenda richiamare la bellezza in un momento così difficile». Lo psichiatra Vittorino Andreoli inaugurerà mercoledì alle ore 18 nella Sala dei Teatini in via Scalabrini la rassegna “Protagonisti del nostro tempo”, voluta da Fossati Serramenti in collaborazione con Fondazione Teatri e Biffi Arte per offrire momenti di riflessione e confronto. Già direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave e ora membro della New York Academy of Sciences, Andreoli parlerà di “Bellezza e follia oggi: come l’arte ci salva”, in dialogo con lo scrittore Gabriele Dadati. Andreoli, che dirige la collana di volumi monografici sui grandi della pittura “Tra genio e follia”, in edicola con Mind e la Repubblica, è autore di pionieristici studi sul tema, volti anche a sfatare il pregiudizio che arte e malattia mentale non potessero convivere, nonostante siano numerosi gli esempi di artisti cui era stato diagnosticato un disturbo della psiche. «Van Gogh era stato visto dal più grande psichiatra del tempo, Kraepelin, che lo definì schizofrenico. Robert Schumann è morto in manicomio. Ci sono tantissimi casi», evidenzia Andreoli

Come mai ci sarà anche un volume su Mondrian?
«Perché la collana tratta in realtà di arte e psiche. Io sono stato il primo a oppormi sia all’ipotesi lombrosiana che tutti gli artisti fossero matti (Cesare Lombroso parlava di degenerazione), ma sono stato anche il primo a dire che la follia è compatibile, non esclusa a priori. Arte e follia non vuol dire arte uguale a follia. Il rapporto è sempre tra un artista e la sua personalità. Mondrian era chiaramente non malato di psiche, ma con un sua personalità. Comunque i grandissimi pittori dell’Art Brut, provenienti dai manicomi, non sono moltissimi, appena tre: Carlo Zinelli, Aloise Corbaz e Adolf Wolfli».

«Arte e follia non vuol dire arte uguale a follia. Il rapporto è sempre tra un artista e la sua personalità».

Arcimboldo, cui sarà dedicato il volume di luglio, come entra in questo novero?
«Perché è straordinario. Non fu affatto matto. In tarda età era diventato un po’ depresso. Le sue opere sono state a lungo dimenticate. Lo analizzo sulla base della sua personalità. Lo amo in modo particolare perché studio le espressioni delle sue opere e vedo la mostruosità».

Viviamo in tempi molto incerti: la pandemia, poi la guerra, lo spet¬tro della crisi economica. È vero che in questi ultimi due anni è aumentato il disagio mentale?
«Ma certo. Il termine disagio è molto generico, ma io stesso sono a disagio in questa condizione e credo anche lei. Vivere nella prima pandemia del mondo, con un virus che sta avendo un’azione distruttiva sulla nostra civiltà. Vivere una guerra che c’è il rischio si trasformi in nucleare. Per molti è addirittura un trauma psichico. Riporto un dato: i suicidi degli adolescenti in questi due anni sono aumentati del 30% e non è poco. I depressi in Europa, dove la depressione clinica rappresenta il 14% della popolazione, dunque una persona su sei che lei incontra per strada ha almeno sofferto di un episodio clinico di depressione, stanno aumentando.
D’altra parte, se i fenomeni a cui lei ha accennato fanno crescere la crisi economica, un’economia che va male incide sullo stato di serenità delle persone».

In che modo la bellezza ci può salvare?
«È bellissimo il titolo dell’incontro. Lo usò per primo Dostoevskij nell’“Idiota”, quando mise in bocca al principe Myskin la frase: “La bellezza salverà il mondo”. Qui non ha lo stesso significato. Proprio in queste condizioni estreme di dramma, di paura, di insicurezza che viviamo, ci ricorda che la bellezza è frutto della creatività».

Dove troviamo questa bellezza?
«La bellezza è una visione della cultura. Quando nel Paleolitico superiore, più o meno 35mila anni fa, disegnavano nelle caverne, quegli affreschi avevano un significato molto concreto: favorire la caccia. Se le frecce colpivano i bisonti, era auspicabile che nella caccia del giorno dopo accadesse così. Non era bellezza. Quei disegni avevano una funzione di sopravvivenza: procurarsi la carne per mangiare nel villaggio e potersi sostenere. È con lo sviluppo della civiltà che nasce la bellezza, che nasce la creatività. Era sorto a Parigi le Musée de l’Homme, una raccolta di oggetti che venivano usati e personalizzati nei villaggi. Quindi erano strumenti, manufatti artigianali per vivere, come cucchiai, ecc. A un certo punto le Musée de l’Homme venne trasferito al Louvre che adesso ha una sezione dove gli oggetti usati un tempo come strumenti di sopravvivenza sono diventati opere d’arte. Dunque la bellezza è una visione del mondo. Se c’è chi vede bella una bomba atomica come quelle sganciate a Hiroshima e Nagasaki, è una persona che va curata. Voglio dire: la bellezza è poter scegliere, è poter fare. Un serpente è bello o brutto? Per chi lo tiene in casa è bello. Vale anche per i ragni. È una visione. La natura era selvaggia. Per esempio i cavalli che tanto oggi tutti amano, prima erano visti come animali terrificanti. Parlare di bellezza significa che c’è la ricerca di una visione del mondo. Nella religione gli angeli erano belli, ma essere belli vuol dire che erano buoni, vuol dire che erano perfetti. Infatti Giotto negli affreschi della Cappella degli Scrovegni descrive angeli che sono una meraviglia. Quindi la bellezza è una concezione culturale che è una delle caratteristiche principali di una società che si sviluppa, di una civiltà che cresce e non di un civiltà che muore».

«A Verona si creò il primo atelier in Italia una specie di bottega d’arte della follia»

Vittorino Andreoli ha cominciato molto presto a occuparsi del rapporto tra arte e follia, trovando nella loro compatibilità l’elemento per umanizzare la psichiatria. «Nel 1959 appena iscritto alla facoltà di medicina avevo intenzione di dedicarmi alla psichiatria e chiesi al direttore dell’ospedale di poter vedere questo ambiente di cui non avevo una conoscenza diretta», rievoca Andreoli. Il manicomio “San Giacomo alla Tomba” di Verona era formato da cinque reparti per gli uomini e altrettanti per le donne, numerati dal primo al quinto sulla base della gravità della malattia. «Nel quinto reparto i malati erano legati sulla sedia, a sua volta legata al muro. Finii il giro ed era veramente una situazione incredibile. Oggi è noto, ma all’epoca non si conosceva perché non si poteva andare in visita al manicomio, dunque la gente non entrava. Il direttore mi disse: «Andreoli, adesso avrà deciso di non fare lo psichiatra». Invece il giovane studente replicò che in quella situazione riteneva di poter fare qualcosa. Camminando nel parco, giunti a una piccola casetta («sembrava una specie di oasi nel deserto dell’umanità»), avvenne la svolta.
Allo scultore Michael Noble, che frequentava l’istituto, avevano raccontato di un paziente del quinto reparto che con un pezzo di sasso aveva cominciato a tracciare segni sui muri: gli era stato subito impedito di sporcare la parete, trovando un ulteriore motivo per legarlo.
Nobile, coniugato con Ida Borletti, della ricca dinastia di imprenditori, invece persuase l’ospedale a concedere un posto dove il paziente avesse a disposizione la carta e i colori. La Borletti costruì rapidamente l’edificio.
Fu lì che il direttore del manicomio condusse Andreoli, dove quell’uomo schizofrenico dipingeva. «I medici, dovendo curare i malati, si vergognavano ad andare a vedere il paziente che eseguiva graffiti. Fui invitato a occuparmene io», evidenzia Andreoli, che cominciò a chiedere nei reparti se altri pazienti volessero dipingere.
«Si creò così un atelier, il primo in Italia. Una specie di bottega d’arte della follia che veniva considerata un capriccio, una follia. Io ero molto interessato a vedere come uno schizofrenico o un depresso usassero il colore, volevo capire il differente stile pittorico in rapporto alle patologie. Si arrivò a considerare il disegno un linguaggio grafico per comprendere chi non riusciva a spiegarsi con le parole».
Andreoli nel 1963 portò a Parigi le opere di Carlo Zinelli, «quel tale che sporcava le pareti», accolte con entusiasmo da Jean Dubuffet, fondatore dell’Art Brut, e da André Breton, psichiatra e padre del surrealismo.