Skip to main content

La società della paura che genera mostri – Di Giuseppe Maiolo

Fonte: l'adigetto.it

Non sono le distanze o l’isolamento degli individui, ma i legami e la forza della vicinanza che ci possono aiutare a resistere ai pericoli del mondo

Che la pandemia abbia cambiato il mondo lo sappiamo. Ha incrementato la paura che è specifica condizione umana e un sistema pervasivo di comunicazioni martellanti l’ha distribuita ovunque a dosi massicce e ha fatto sviluppare dappertutto tormento e insicurezza, angoscia e paranoie. Il guaio è che il ruminare intenso del terrore e dei pensieri colmi di immagini negative e carichi di ansia, sembra non arrestarsi.

Neanche quando, a valutare la situazione attuale, il contagio sembra rallentare. Si sviluppa, al contrario, una ulteriore vena minacciosa di timori altrettanto contagiosi che alimenta scenari da panico, idee assurde e comportamenti estremi. Così cresce a dismisura la società della paura, quella di cui parla Vittorino Andreoli nel suo ultimo libro «Homo incertus». Quella che la continua e persistente dimensione di incertezza fa lievitare la preoccupazione del vivere a contatto degli altri e lo starsi accanto. In questo senso ansia e incertezza sanno generare mostri e comportamenti difensivi ma assurdi e inaccettabili. L’ultimo in ordine di tempo è quello di aver immaginato gabbie di plaxiglass per garantire la sicurezza ai bambini che a settembre torneranno a occupare le aule scolastiche.

Fa orrore solo il pensiero dei banchi trasformati in scatole illusoriamente asettiche, contenitori di esseri umani che si vedono e non si sfiorano, tantomeno si annusano e si toccano. Inimmaginabile e perversa scenografia di un tempo che sembra diventare sempre più dominato da idee persecutorie tra cui quella malsana dell’untore che torna ad emergere e vede, adesso, protagonisti anche i bambini, come vittime e allo stesso tempo colpevoli. Perché adesso circola la paura che gli stessi piccoli siano un potenziale veicolo di trasmissione del virus, portatori sani in grado di contagiare i pari e gli adulti, i compagni e i maestri, i fratelli e i nonni. Niente di meglio allora, con l’alibi della protezione, che rinchiuderli nelle nuove gabbie trasparenti.

E non si tratta di negare i rischi che la pandemia può ancora produrre e neppure di rifiutare l’idea che la comunità scientifica sappia indicare i limiti da osservare per garantirci sicurezza collettiva. È piuttosto l’auspicio di mantenere la capacità di riconoscere i bisogni dei bambini e ricordare che la loro crescita sicura dipende da spazi fisici e relazionali, da contatti e vicinanze affettive ed emotive. Non da ulteriori barriere. Proteggerli e rassicurare le famiglie non deve dipendere da una sorta di regressione psicologica a cui, speriamo temporaneamente, ci ha condotto l’esperienza del coronavirus, quanto dall’attenzione precisa che si deve a tutte le esigenze della comunità.

Di sicuro ci sono momenti storici particolari, e quello che stiamo vivendo lo è, che fanno emergere in modo netto le fragilità umane. Ma il Covid-19 ci ha fatto scoprire le vulnerabilità trascurate con la presunzione che modernità e tecnologia ci avessero resi invincibili e al riparo dall’incertezza e dal dubbio. Invece abbiamo la necessità di imparare a convivere con la dimensione dell’incertezza che, come diceva Zygmunt Bauman, è l’unica certezza che rimane nella società liquida. Ne deriva che per salvarci dovremmo accettare le nostre debolezze che sono vulnerabilità biologica e psicologica, che abbiamo bisogno di mascherine ma anche di altro e forse proprio di vicinanza e contatto o magari di abbracci che in questo momento vogliamo lontani con barriere trasparenti.

Di certo la distanza sociale ha fatto la sua parte, ma per uscire da questa sofferenza collettiva dovremmo provare ad arginare la paranoia, quella che ci spinge ad andare a caccia del nemico di turno, quello con i tratti del portatore sano. Forse urge rivedere tante cose, a partire dai separé e dalle visiere trasparenti come protagoniste della protezione dei bambini. Probabilmente non sarà un peccato copiare soluzioni di altri paesi che hanno già individuato possibili percorsi di uscita. Ma rimane il fatto che, proprio come dice Andreoli, non sono le distanze o l’isolamento degli individui, ma i legami e la forza della vicinanza che ci possono aiutare a resistere ai pericoli del mondo.