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Vittorino Andreoli: "Una madre che non abbandona la figlia omicida è l'umanità che sopravvive"

Vittorino Andreoli: "Una madre che non abbandona la figlia omicida è l'umanità che sopravvive"

Fonte: Huffpost

26 aprile 2021 | Silvia Renda

Lo psichiatra commenta con Huffpost il caso di Avellino: "Un atto di coraggio estremo, esiste ancora il legame d’amore"

“Mia figlia ha pensato di ammazzarci, ma non posso lasciarla sola”. La madre di Elena Gioia è scampata alla morte per caso. Ha avvertito i gemiti di dolore del marito - che sarebbe deceduto di lì a poco dopo essere stato accoltellato - e con l’altra figlia hanno chiamato le forze dell’ordine, intervenute in casa. Salvandole, di fatto. Elena, 18 anni, voleva uccidere anche le due donne, ma agli inquirenti ha raccontato che era stato un ladro ad assassinare il padre. Poco dopo si sarebbe scoperto che quelle sette coltellate erano state inferte dal ragazzo 23enne di lei, in un piano omicida progettato insieme. Vent’anni dopo il massacro di Novi Ligure, il parallelismo con il caso di Avellino nasce spontaneo. Era il 21 febbraio 2001 quando un bambino di 12 anni, Gianluca De Nardo, e sua mamma Susy furono massacrati a coltellate, 97 in tutto, nella loro villetta. A uccidere erano stati la sorella e figlia Erika De Nardo e il suo fidanzatino Mauro Favaro, detto Omar. Lei aveva 16 anni, lui 17. Si inventarono la rapina di una banda di ladri albanesi, ma la loro tesi fu rapidamente smontata dalle indagini dei carabinieri. La terza vittima, secondo il racconto fornito agli inquirenti da Omar, doveva essere il padre di Erika. L’ingegner Francesco De Nardo da subito ha deciso di stare vicino alla figlia, di sostenerla in silenzio. Così come adesso racconta di voler fare Liana, la mamma di Elena. Per lo psichiatra Vittorino Andreoli, si tratta di “atti di coraggio estremo, la testimonianza dell’umanità che sopravvive nella tragedia”.

Professore, cosa scatta nella mente di un genitore che sopravvive a tutto questo?

Esiste ancora il legame d’amore. Questa donna, nonostante il comportamento della figlia, fa la madre. Nonostante fosse stata destinata alla fine del marito, sente l’amore per la figlia. Si mette dalla sua parte. È un esempio commovente, un martirio laico: doni la tua vita per un legame d’amore.

Subentra una sensazione di “responsabilità”? Come se quel gesto possa in qualche modo essere legato a un fallimento nel ruolo di genitore?

Sicuramente subentra la percezione di avere una figlia immatura, nonostante non lo sia più legalmente: c’è la piena responsabilità di chi ha agito. Probabilmente conosce quanto sia fragile la ragazza, incapace infondo di gestire i propri sentimenti, di far dominare i principi della ragione su questi istinti di eliminazione. La madre la percepisce come una figlia che non sa quello che fa. È bella questa espressione: “non sa quello che fa”. Bisogna stare attenti a non offendere i cristiani, ma ricorda quel “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Anche in questo caso c’è un perdono.

Come si può perdonare?

La razionalità chiede giustizia, l’amore chiede perdono. Per perdonare bisogna amare e l’amore è oltre la giustizia, è più della giustizia.

L’amore è più forte anche del risentimento, quindi: non solo questa figlia aveva pianificato di ucciderla, ma ha anche messo fine alla vita del marito.

L’amore ha perduto il significato di donarsi, di fare le cose per aiutare l’altro. Una madre l’ha generato quel figlio. È la grandezza della maternità, che sa amare oltre ogni cosa.

E come si mette invece da parte la paura, decidendo di continuare a intrattenere rapporti con chi aveva progettato di ucciderti?

Le sembrerò molto vecchio e poco psichiatra: l’amore elimina ogni paura. Ma non è solo quello, le riporto un aneddoto. Io mi sono occupato del caso di Donato Bilancia, condannato a 13 ergastoli per aver commesso 17 omicidi fra il 1997 e il 1998 in Liguria e nel basso Piemonte. Era una persona che faceva terrore, aveva tentato di uccidere anche in carcere. L’ho incontrato molte volte e fui io a chiedere di organizzare i colloqui senza la presenza della guardia, senza che neanche ci controllasse dallo spioncino. Ero sicuro che non mi avrebbe torto un dito.

Perché?

Nel caso mio non c’era certo affetto, c’era la valutazione di quella personalità. C’è la convinzione che lei non farebbe male a te. Si ricordi che non esiste il mostro, esiste l’uomo che in quella condizione si è comportato in maniera inaccettabile, ma quello stesso uomo può cambiare volto e non saper fare del male.

A questo proposito, Erika De Nardo ha scontato la sua pena e adesso ha una vita normale: si è sposata, si è laureata. Per chi guarda dall’esterno è strano inquadrarla in una dimensione così umana, perché ciò che ha fatto ci appare disumano.

Ripeto, non è una storia di mostri, ma di uomini e donne che vanno puniti, ma sempre con l’idea che possano superare la brutalità. Le pene a vita non hanno un fondamento né scientifico, né umano. L’uomo non è un mostro, può sempre ritrovare una dimensione che sino a quel momento non ha mai avuto.

Cosa spinge allora questi ragazzi a diventare assassini?

La cosa che colpisce è che si uccide per eliminare un ostacolo. È un segnale drammatico. La morte ha perso il mistero, si è perso il senso di sacralità del lutto. Da quello che si legge sui giornali, il padre e la madre di lei non permettevano questa relazione per via del passato di Giovanni, pregiudicato e consumatore di droga. I genitori - nell’esercizio di quelle che sono le loro funzioni, nel tentativo di proteggere la figlia – sono stati percepiti come un ostacolo. E il mezzo per eliminarlo è stato la morte. Oggi uccidere ha perso qualsiasi significato umano, diventa un fatto quasi banale.

Perché questo cambiamento?

Viviamo in una società in cui sono spariti i principi e le regole. “Non uccidere” era nella tavola delle leggi, in ogni codice di regole umane. Ma la vita è diventata banale. Tutto si misura nel poter fare ciò che si vuole, in quella che viene riconosciuta come libertà. L’unico vero valore è quello del denaro, del possedere. E poi mi deve lasciar dire una cosa…

Prego.

Uccidere dà una sensazione di potere enorme. Vuol dire dominare. È un gesto titanico: ho il potere, ti distruggo. Hai in mente solo ciò che tu vuoi. In questa storia drammatica, il comportamento della madre è un’eccezione che umanamente fa piacere.

Che tipo di vita sarà, per chi resta?

Terribile. Non conosco le persone coinvolte, si tratta di considerazioni teoriche, ma potrebbe nascere in loro il senso di colpa, con il quale si vive malissimo. “Forse potevo capire, fare di più, intervenire”, potrebbero pensare la madre e la sorella. In questo teatro tragico, ciò che sopravvive è il senso di colpa. Forse l’unico che non lo prova è chi ha compiuto il gesto, perché crede di avere la ragione. Si ricorda di Pietro Maso?

Aiutato da tre amici, il 17 aprile 1991, uccise entrambi i genitori. Nel 1996 scrisse una lettera al vescovo di Vicenza Pietro Giacomo Nonis, affermando di sentirsi pentito e chiedendo il perdono a Dio.

Il pentimento in quel caso è avvenuto dopo circa cinque anni. Il senso di colpa vuol dire cambiare una personalità. È possibile, ma occorre tempo.