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Come in un libro, anche nella vita l'ultimo capitolo è il più interessante

Fonte: Giornale di Brescia - 14 Aprile 2019

Anna Della Moretta

«Sì, sono vecchio. Ma non mi ribello, non piango, non urlo, non dedico tempo alle lamentazioni».
Vittorino Andreoli non ammette fraintendimenti e per questo invita caldamente a mettere al bando termini quali «terza età», o «invecchiamento attivo», spesso usati per mascherare una «bellissima età della vita».

«Considero invecchiare un capitolo del ciclo della vita e della storia di ciascuno, oltre che un grandissimo privilegio l’arrivarci. Per questo, pur non essendo ingenuo e non ignorando che alla vecchiaia si associano spesso condizioni di salute non ottimali, vorrei parlare dell’interesse e della bellezza che essa porta con sé. Certo, è giusto che medici e specialisti discutano della vecchiaia, ma essa non è il tempo della malattia. In tutte le età ci si può ammalare, quindi identificare la vecchiaia con la malattia, senza capire, o voler capire, che è moltissimo altro, ci porta a compiere gravi errori nel nostro rapporto con i vecchi».

Un fiume in piena. Andreoli, psichiatra e scrittore, membro del New York Academy of Sciences, è un fiume in piena nell’anticiparci parte degli argomenti che tratterà all’ultimo incontro de «I pomeriggi della Medicina», in programma mercoledì prossimo, 17aprile, alle 17,45 in San Barnaba a Brescia.
Inevitabile il cenno alla sua ultima fatica letteraria, «Il rumore delle parole» (Rizzoli), che si conclude con un lungo capitolo proprio sulla vecchiaia.
«Vedete, di un libro l’ultimo capitolo di solito è il più interessante», dice, facendo il parallelismo con l’ultimo capitolo della nostra esistenza.
Ed elenca almeno tre ragioni che lo rendono tale: «Intanto, prosaicamente, da vecchi non si deve andare ogni giorno a timbrare il cartellino. Vi sembra poco? Poi, non si deve più dimostrare nulla a nessuno e non si è più in carriera, per usare un termine che considero orripilante. Perché, vedete, le dimostrazioni ci rendono sempre un poco falsi e liberarci da questo obbligo è di certo salutare».

La lotta è finita. Ancora: «La vecchiaia non è in lotta e, per questo, non ha nemmeno nemici. Poi, non c’è nemmeno più quella pulsione freudiana del sesso. Badate, non significa che manchi l’amore, quello che include la tenerezza dei corpi, ma non si è più trascinati in quelle lotte greco-romane dell’età giovanile».
La vecchiaia, dunque, avvolta nell’aura delle «magnifiche sorti e progressive»?
Andreoli ha ben presente che, in questo caso, la medaglia ha ben più di due facce.
«Ovvio, non sono così ingenuo da pensare che un vecchio viva nella Gerusalemme conquistata. Vive in questa società che ha come ingredienti anche la povertà e l’abbandono. Però, permettete, ritengo che sia una malattia sociale ben peggiore la lotta continuaper avere più denaro e più potere. La vecchiaia ci libera da questa lotta, perché i desideri non sono più dipendenti dal denaro».

Liberi dalle schiavitù. Dopo essersi liberato dalla schiavitù della competizione e della carriera, come vive il vecchio nella nostra realtà? «Intanto, non è possibile che vi sia una società che lo considera un peso. Significa che è povera e che non ha proprio capito nulla. Anche per i vecchi sento spesso parlare di rottamazione: ma vi rendete conto? In passato, in tutte le società il vecchio era un’autorità e godeva di rispetto e stima. E ora? La longevità non deve essere solo un problema della scienza, ma una grande speranza della società, altrimenti è perfettamente inutile che la prima studi e si adoperi per farci vivere tutti più a lungo».

Solitudine e abbandono. Sono due, per Andreoli, le condizioni a cui va incontro un vecchio: la solitudine e l’abbandono. «Della prima abbiamo bisogno e non dobbiamo ritenerla una malattia: essere soli permette di pensare e questo è fondamentale, visto che viviamo in una società che non pensa più. Altro è l’abbandono: la persona vorrebbe avere un ruolo indispensabile alla società, che non sia solo una marginale azione di volontariato. Vorrebbe raccontarsi e tramandare, ma, per farlo, ha bisogno di avere qualcuno che ascolta ed oggi i figli non hanno tempo e i nipoti preferiscono lo smartphone. Raccontarsi è la bellezza della nostra storia, perché significa scoprire la vita. Se il vecchio non ha più questo ruolo, si ripiega su se stesso e sente solo i propri dolori, diventando capriccioso come i bambini, che, per attirare l’attenzione, accentuano i loro bisogni. Non illudiamoci che, per fugare l’abbandono, basti invitare i vecchi a connettersi ad Internet. Non è una soluzione, ma un precipitare in un abbandono ancora più profondo».