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Una piroga in cielo, di Vittorino Andreoli

Fonte: La Bottega delle Storie

1 luglio 2019 | blog di Maria Rosaria Baldin

Il libro di Vittorino Andreoli Una piroga in cielo, è uscito nel 2006, ben 12 anni fa. Ve ne propongo due brevi brani, avvertendovi che si tratta di un libro molto crudo e diretto, a tratti sgradevole nella brutalità delle descrizioni, ma che dovrebbe essere letto o riletto per capire il presente.

Sono passati 12 anni invano, se le violenze ai migranti narrate nel libro sono aumentate, anziché essere sparite. Questo più sotto è l'incipit.

Erano arrivati a gran velocità, pavoni delle tenebre. Dentro un giubbotto nero di pelle, pantaloni infilati in stivali lucidati a festa. Uno era identico all'altro. Come le loro moto. Avevano voglia di divertirsi.

Non si andava più a ragazze. Chi cavalca una moto possente non si svilisce con un ventre di donna. E poi non c'era più nulla da conquistare, non roba da emozioni forti, da eroi del nulla.

Meglio un negro. Uno di quegli sporchi animali che assomigliano all'uomo e avevano appestato quel quartiere periferico facendone una macchia d'Africa in una città bianca. Ammassati l'uno sull'altro.

In via Cantarane le moto si erano quietate. Erano scesi e avevano distrutto un'auto parcheggiata, con la forza con cui si spacca una montagna. Macchine nere, puzzavano di merda.

Le finestre si erano addobbate di lamenti. Era sceso disperato un nero dentro la notte, a difendere la sua proprietà, un insieme di fatiche e di speranza.

Era stato circondato, accoltellato e lasciato per terra, vicino a un sogno ridotto in lamiera. Il sangue usciva sulla pelle nera.

Ma se ne dovevano andare. Le moto ora urlavano di dolore e scappavano nella vergogna, mentre i loro centauri erano titani del cielo.

Metamorfosi della notte. Di giorno bravi ragazzi. Si fanno un negro ogni tanto. Lavoro, università. Nessuno si droga, qualcuno è persino contro il fumo.

Un tempo si tagliavano le code alle lucertole, oggi piacciono di più i negri. Ce n'erano tanti in quel quartiere, a Veronetta. Frammenti del Gabon, del Burkina Faso, del Togo, della Costa d'Avorio...

La storia di Kouniò Baràm, il Dogon del Mali testimone delle violenze sui migranti, ci offre scorci affascinanti di paesaggi e mostra aspetti della vita in Mali.

Un uomo seduto in Africa, non ha nulla speciale: è come un uccello sul ramo di un albero. È la sua posizione naturale: qui l'imperativo è vivere, non agire, che vuol dire spesso sconvolgere, distruggere. Solo in Occidente l'uomo corre diretto in qualche luogo: in una direzione e poi in quella contraria. Corre e dimentica il perché di quell'ansimare.

In Africa l'uomo non sta seduto, ma accovacciato. Gambe piegate, braccia sulle ginocchia avvolte, come il resto del corpo, nell'ampia tunica. Generalmente tiene in bocca qualche cosa: mastica una radice, rumina del tabacco e lo sputa la sera, prima di dormire. L'Occidente mangia rapido, l'Africa rumina il nulla e sembra nutrirsi in continuità.

Kouniò Baràm sembrava una statua, alto, muscoloso. Se in Africa un giovane sopravvive è quasi sempre ben fatto: altrimenti muore per selezione naturale. Se uno resiste alle difficoltà della natura, ai riti Iniziatici, alle prove di coraggio, allora è forte.

Molti altri erano accovacciati come lui lungo il Niger, durante il giorno, e la sera si sdraiavano nello stesso posto, come in un letto.

A volte Kouniò Baràm si immergeva nell'acqua e bastava abbassasse il capo per dissetarsi, specchiarsi. L'acqua un'abitazione straordinaria. Sotto il cielo, in un panorama che varia dall'alba al tramonto: dalla luce al mistero della notte. In quella posizione non si fa nulla. Si vegeta come una pianta, il tempo passa come per un cormorano che non si pone domande impossibili: chi sono, cosa faccio sulla terra, dove sono destinato.

In quella posizione Kouniò Baràm era un oggetto senza pensiero, come una zucca, una piroga secca. Aspettava, senza angoscia, senza il delirio del dover essere. Contemplava l'orizzonte, che voleva osservare da vicino, andando laggiù, nella pianura dove scorrono i fiumi, calamitato come un uccello che deve raggiungere l'Europa dopo aver svernato in Africa.

E cosi aveva visto i pesci avvicinarsi a lui e sgusciare veloci non appena remava di accarezzarli. E poi ritornare e riallontanarsi ancora e ancora, in un gioco della natura tra un pesce del Niger e un dogon di Tireli. Ridevano insieme, Kouniò Baràm era affascinato dalle loro code, e da quelle pinne scaltre che correvano più delle gambe d'un guerriero in fuga.