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Vittorino Andreoli spiega la vecchiaia: la stagione degli approdi

David Hockney (1937), "My parents" (1977, olio su tela, particolare), Londra, Tate

Fonte: corriere.it

16 gennaio 2020 | Carlo Baroni

Prospettive e stereotipi di una fase della vita. Esce «Una certa età» (Solferino), il saggio sugli anziani dello psichiatra veronese, membro della New York Academy of Sciences

Ci sono quelli stizziti che rifiutano il posto che vorresti cedergli sul metrò. Come a dirti: guarda che non mi sto sgretolando. E gli altri che si piangono addosso. Per la memoria che si fa più lenta di una riforma in Parlamento. Per le gambe disconnesse con la testa, le mani disegnate come un canyon e le vene uguali a fiumi che affiorano disordinati. Ma ci sono anche quelli che se la tirano. Gli insopportabili. I lamentosi. Che la sanno sempre più lunga di te. Come se la saggezza fosse una questione anagrafica. Infine, ecco i rassegnati. Con i figli (di solito tanti) che «non chiamano mai». Quelli dentro le canzoni di Renato Zero e Baglioni. Stanno negli ospizi, o meglio «nei giardini che nessuno sa» a pretendere una carezza. O piuttosto che il respiro decida di non aspettare quota 100

Una certa etaI vecchi. Donne e uomini di Una certa età come il nuovo saggio di Vittorino Andreoli, edito da Solferino. E il sottotitolo recita: «Per una nuova idea della vecchiaia». Perché la definizione è soggetta a mutamenti con il tempo. E in effetti l’idea di vecchiaia non è mai vecchia. Resta il retaggio (il pregiudizio?) di considerare questa età della vita come una sentenza. L’anziano è il condannato a morte già uscito dalla cella che attende solo che il boia lo venga a prendere. E così si aggrappa a un intoppo burocratico. A un colpo di genio del suo avvocato per rimandare l’addio. Ma sa che è solo questione di tempo. Comprarsi l’agenda del nuovo anno sono solo soldi buttati via. È l’immagine di una vecchiaia come età senza senso. Il terzo tempo di una partita dove non c’è più spazio per giocare. Figuriamoci per vincere. La vecchiaia sinonimo di cose negative. Senectus ipsa est morbus (la vecchiaia è di per sé malattia).

Vittorino Andreoli viaggia dentro questa fase dell’esistenza proprio alla ricerca di quel senso che sfugge. Cogliendo contraddizioni e inganni. Ma anche opportunità e sogni. Perché la vecchiaia è anche un tempo per progettare. Consapevoli di quello che si è. Il passato, allora, diventa un kit sorprendente. Non è questione di esperienza, ma di sentimenti e passioni da (ri)vivere con il passo giusto. Il passato che non è più rimpianto. «Un adulto si proietta nel futuro, un vecchio vive» scrive Andreoli. La differenza tra l’attesa e l’adesso. Tra qualcosa che deve ancora essere (e chissà se sarà?) e qualcosa che c’è, che esiste: hic et nunc, qui e ora. «L’esistenza è respirare l’aria di quel momento, sentire la presenza dell’altro in quell’istante e avvertire di non essere soli».

C’è anche l’invito a non cadere nel luogo comune che la vecchiaia sia un ritorno all’infanzia. Le due età della vita che, alla fine, si congiungono, quasi si fondono. Ma è una regressione non confrontabile con la vivacità del bambino. Di quell’età forse ritornano la leggerezza e l’inconsapevolezza ma spesso sono sintomi di patologie cognitive più che di scelte esistenziali.

Invece non è uno stereotipo ma una «malattia» che non finisce nei manuali la tendenza, la voglia, la rabbia di provare a congelare il tempo. Adottare stili di vita con l’orologio portato indietro di venti-trent’anni. Gli anziani vestiti come a un concerto rock o impegnati in sport estremi (e a una certa età persino il calcetto è più letale del bungee jumping). È un tentativo, maldestro, di fare un lifting all’anima prima ancora che al corpo. Il non accettarsi per quello che si è diventati, una sindrome da Peter Pan fuori stagione. Il desiderio di non diventare adulti che qui diventa chiudere le porte a un’età che è considerata la stanza del niente. E il prolungamento della vita accentua, in alcuni, questa sindrome.

La vecchiaia è anche il momento di dare un altro significato alla vita di coppia. Uomo e donna si avvicinano e nello stesso tempo divergono. Si accentuano i caratteri di genere, quasi a rimarcare la forza dell’identità. Ma anche a far emergere la complementarità tra i due generi. Siamo in un’età che diventa un’apripista per cogliere gli aspetti più profondi dell’altro, quasi una gara a coglierne il meglio, senza il peso di desideri e passioni che finiscono per inquinare una relazione sana.

E allora diventare vecchi è aggiungere spazi di vita vera. Cambiare prospettiva, lasciar sedimentare gli orizzonti, guardare da lontano e oltre aiuta a rendere nitidi i contorni. I malanni dell’età sono un monito costante a riconoscere i limiti, non cadere nei deliri di onnipotenza per bruciare il tempo con interessi effimeri. La vecchiaia (ma non è bello chiamarla così) non è l’ultima spiaggia ma la possibilità di sfiorare un nuovo mare.